La comunità è un valore che le scuole filosofiche ellenistiche hanno diffusamente riconosciuto: qui è possibile sforzo comune, aiuto reciproco, sostegno,
quella pratica comune che è la cifra fondamentale della ricerca sotto forma di dialogo (di cui ci sarebbe molto di più da dire ma, come sempre con le cose interessanti, procrastinerò rimandando ad un’altra occasione). Da queste basi all’impegno comunitario per eccellenza, ossia la politica, il passo è breve ed è stato compiuto anche dagli insospettabili epicurei, notoriamente restii a impegni che potessero violare il motto “vivi nascosto”. Sebbene sotto forme diverse, l’occupazione in vista della trasformazione dello Stato è stato un tema ben presente ai filosofi antichi.
Per questi motivi si può dire che il filosofo è colui che impegna se stesso fino a correggere le proprie riflessioni e azioni nella coscienza del proprio rapporto con se stesso, gli altri esseri umani e il mondo.
Quale rapporto con il mondo può derivare dallo studio della filosofia antica? Innanzitutto, come abbiamo già detto, il saggio dovrebbe essere sempre costantemente a contatto con il mondo. Il contatto si persegue se non si considera esso come un mezzo o una risorsa da sfruttare, bensì come una totalità in cui noi siamo immersi, un’unità vivente di cui facciamo parte.
Come sostengono gli epicurei, l’esistenza è unica e dovuta a un gioco del caso, è un dono gratuito della Natura; dobbiamo provare gratitudine per ciò che ci è concesso. Inoltre, la stoica teoria della reciproca compenetrazione delle parti ricorda come ogni evento implichi tutto l’universo: in ogni piccola parte di esso possiamo incontrare la grandezza di ciò di cui fa parte, in ogni dettaglio di realtà è presente un universo.
Il “miracolo inaudito della nostra presenza del mondo” è percepibile nella sua temporalità se riflettiamo sul valore infinito dell’ istante collocato nel cosmo. Come detto prima, ogni evento implica la magnificenza di ciò di cui fa parte; come uno spectator novus (“colui che vede per la prima volta”), non dovremmo dare per scontato il futuro e gioire di ogni attimo presente che viviamo. Qui nel presente c’è dono, qui c’è l’unica felicità che possiamo vivere.
Questa percezione è possibile solo mettendoci nella prospettiva universale della Natura, nel senso etimologico del termine. Esso deriva infatti da physis, il “movimento di crescita” grazie al quale la realtà si manifesta. Se si riuscisse a comprendere che noi uomini siamo un momento di questo processo diveniente, avremmo operato il cambio di prospettiva necessario. Come dice Seneca, “toti se inserens mundo”, “inserendoci nella totalità del mondo”, totalità che eccede l’individuo ma che scopriamo in noi stessi, saremmo davvero capaci di provare un sentimento di identità tra la nostra visione e quella naturale, chiamato da Rousseau “il sentimento dell’esistenza“.
Bisogna però ricordare come il filosofo non sia sapiente, ma sia erotico. Come insegna Platone nel Simposio, esso non possiede la sapienza ma ha la natura demoniaca di Eros, è “filo-sofo”: tende al sapere poiché ne è innamorato, sa di esserne povero e di non essere ciò che ricerca ma continua a farlo.
La figura di Socrate è, in questo senso, assai eloquente. In questa immagine si insinua l’idea che il filosofo stesso, debba essere un appello all’esistenza. Un’esistenza autentica in quanto vissuta nel viaggio di scoperta di sé, ma sopratutto che inviti l’Altro a perseguire un simile cammino, il quale è arduo, ma porta soddisfazione.